Acquerelli dalle sfumature temporali appena accennate che contribuiscono a definire una dimensione spaziale altrettanto vaga, dalla quale emerge, vibrante da un primordiale e cristallino vuoto, una prosa intessuta di dialoghi il cui scopo primario sembra essere quello di ricondurre il lettore alla semplicità primeva del discorso, una chiarezza che si evince dall’interpretazione dell’Autore del fine stesso del linguaggio: trasmettere una verità soggiacente a ogni fenomeno della Realtà.

Demis Caccin (1975) non utilizza strati sovrapposti di velature nel dipingere le scene ancestrali dei suoi “Specchi di Dioniso” (Linea Edizioni, 2023); si limita, infatti, a stendere direttamente una serie di pigmenti, nella quale abbonda la fluidità dell’acqua, sulla tela asciutta dello sguardo del lettore, che in tal modo si trova a ricevere direttamente l’immagine lustrale degli insegnamenti iniziatici che i personaggi delle sue storie, tenui e indefinibili quanto la stessa ambientazione, comunicano a interlocutori giunti sull’orlo dell’abisso, quello specchio finale in cui ci si confronta, cadute tutte le maschere, disciolte tutte le illusioni, con la verità assoluta e spesso insostenibile del proprio autentico volto.

Pirandello scrisse: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai molte maschere e pochi volti.” L’Autore padovano de “Gli Specchi di Dioniso” sembra voler descrivere, con tutta la simbolica chiarezza che è consentita dalla natura di un’istruzione sacra, proprio il momento finale di un lungo viaggio nella vita e nei reami dello spirito, la fase terminale di una rarefazione incipiente, che svela, aldilà delle nebbie, la meta ultima del viaggio.

Nel mistico poema del poeta sufi Farid al-Din ‘Attar, il “Manṭiq al-ṭayr” (Il Verbo degli Uccelli), una delle opere giustamente più elogiate della letteratura persiana, si narra la ricerca, da parte di uno stormo di uccelli, del loro Re, il mitico “Simorgh”. Dopo aver attraversato le Sette Valli iniziatiche, il totale della spedizione si riduce a trenta uccelli (in persiano “Si-Morgh”) che, con un ardito e quasi avanguardistico gioco di parole dell’Autore, si ritrovano proprio davanti a uno specchio, davanti a se stessi, e nel contemplare quell’ultima, in fondo vuota, verità, sono inceneriti dal fuoco di tale conoscenza. Le storie incluse ne “Gli Specchi di Dioniso” sembrano appunto narrare, con lievi accenni provenienti da varie tradizioni spirituali, il momento immediatamente precedente questa visione, il cui riflesso è destinato a imprimere nella mente del lettore quella stessa intrinseca verità vitale accanto alla quale è passato ogni giorno della sua esistenza, senza notarla poiché non abbastanza appariscente.

Le storie de “Gli Specchi di Dioniso” emergono come sottili raggi di luce solare filtrati dalle gocce di pioggia posate sulle foglie, gli steli e i fiori, all’alba di un mattino che fa capolino dalle nubi che si diradano dopo un’oscura notte di universale diluvio. Sarebbe vano tentare di negarne la finalità didattica: quest’ultima non pesa però come un insegnamento imposto da un’autorità superiore, bensì penetra gentilmente alla stregua di un liquore rinfrancante, che rinvigorisce inebriando quanto basta per immergersi nella dimensione successiva, legata alla precedente da un filo tanto tenue da potere essere trasportato via dal vento in altre storie e in altri mondi.

Il termine tecnico per il filo in questione è “Sutratma”: il filamento, ancorato al cuore, che collega il Sé Superiore a tutte le varie manifestazioni dell’Ego materiale e fisico. In alcuni casi il Sutratma è ben visibile, evidente all’occhio del chiaroveggente; in altre circostanze può essere necessaria un’intensa regressione ai vari stadi della propria evoluzione precedente, per cogliere nella sua totalità l’essenza della nostra vita.

E che cos’è l’esistenza, nella sua molteplicità, nel suo perpetuo, ciclico, incessante divenire, se non il riflesso dei nostri volti nei frammenti di uno specchio infranto? Quelle stesse identità cui ci teniamo così tenacemente aggrappati, poiché la società che abbiamo contribuito a costruire lo richiede costantemente, non sono che una singola esibizione nell’infinito spettacolo della vita e, per quanto la nostra performance sia elaborata e coinvolgente, di fatto, essa rimane una e una sola, mentre i personaggi che portiamo nel nostro cuore sono molteplici, così come sono infiniti gli scenari e le dimensioni in cui essi possono muoversi, ascoltare, imparare.

Con la semplicità lineare e tuttavia profondissima della sua prosa Demis Caccin riesce trasmetterci, aldilà dell’intento iniziatico delle sue narrazioni, la consapevolezza che non sono necessari molti artifici per elaborare un insegnamento che possa superare la cosiddetta “prova del tempo”, e nel suo caso anche dello spazio: è sufficiente infrangere, uno dopo l’altro, tutti gli Specchi di Dioniso che ci sono stati posti innanzi agli occhi, fino a giungere, nella valle finale del nostro viaggio, al nostro vuoto, infinito e originale volto.

 

Fabio Todeschini

 

 

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