“Io me lo immagino così l’altro mondo: acido fenolico, ghiaccio e merda.”
No, non è il William Burroughs di Terre Occidentali, bensì un demoniaco angelo ventenne, destinato a divenire, abbandonati i suoi versi infetti, uno dei più grandi attori viventi. Se Rimbaud abbandonò la poesia per l’Africa, Klaus Kinski la lasciò per i set cinematografici, per quell’acceleratore delle sue particelle che fu Werner Herzog, e la collisione di quel luminescente pulviscolo produsse alcune delle più estreme, maledette e terribilmente travagliate pellicole della storia del cinema.
Scritte subito dopo il secondo conflitto mondiale e ritrovate casualmente in un baule, le poesie che compongono la raccolta “Febbre, Diario di un Lebbroso”, tradotta e curata da Antonio Curcetti e del tutto snobbata dall’editoria italiana, forse a causa del suo contenuto altamente virulento ed esplosivo, non si presentano al lettore tanto come una rivolta verso un Dio impietoso e amante della suppurazione, un Dio necrofilo, quanto piuttosto come una sconfitta già annunciata. Il crimine sommo di Cristo è l’aver creato Kinski, e viceversa.
Kinski – Napoleone, Kinski – Movimento, angelo di ghiaccio che sventra puttane malate fradice con falli di fuoco e zolfo, il Grande Sopravvissuto, sebbene ferito mortalmente in un’anima nata già sozza del peccato originale di Cristo, sopravissuto ai manicomi, alla desolazione post-apocalittica del dopoguerra, alla depressione oscura, ai bordelli e ai cimiteri, declamando questi versi pregni di febbrile slancio vitale. Sembra averla già conclusa, la sua vita, Kinski, ma è appena all’inizio. Kinski che odia tutti i bambini, ma che quando li incontra s’inginocchia davanti a loro. Kinski – Sole, un sole febbricitante, un sole che tutto offusca alla vista, rendendo spietato il suo sguardo.
È un mondo di carne, quello descritto dal futuro attore, un universo di tessuto infettato dal virus dell’esistenza, una vita che tuttavia Kinski non cessa di ricercare nei meandri più sporchi di un’Europa dilaniata dalla deflagrazione ultima, soltanto per ritrovarsi davanti a uno specchio nel quale si riflette soltanto il suo volto allucinato, “il peggior nemico di me stesso”. L’italiano probabilmente non rende onore a questi versi, composti per essere recitati in preda al delirio; tuttavia ammiriamo e lodiamo la perseveranza del traduttore per averci portato queste perle di maledizione. Se Rimbaud, Verlaine, Lautréamont, Nerval ecc. giunsero all’orizzonte degli eventi, da dove altri proseguirono il cammino, Kinski si getta a capofitto nel Buco Nero, per trovare un universo ancor più oscuro di quello appena lasciato.
La sua è un’anabasi in una gelido territorio fatto di oscura, eppur austera, spietatezza, è la poesia condotta al suo limite estremo e oltre, che non ha alcuno scopo se non quello di un addio finale, senza alcun melodramma: io devo semplicemente “andarmene via di qui”. Le figure demoniache che sono racchiuse in questo oscuro florilegio ci appaiono come araldi di un carneo mondo appena sfiorato dalla mano di un Salvatore, che però è un codardo, e ritira le sue dita benedette prima ancora d’aver santificato nervi, vene, sangue e feci dell’uomo. Il tradimento è senza alcuna speranza, anzi è già dimenticato, senza possibilità di essere descritto se non attraverso l’azzurro occhio mallarmeano che diviene per questo carico di un’angoscia impossibile da lavare via.
“Io sono il mattino, io sono Apollo”: un fuoco inestinguibile, quello della febbre kinskiana, un’apocalisse in perpetuo divenire, che si emancipa dalle ultime fattezze umane per divenire un mostro divorante mondi e coscienze. Il sangue ribolle, falciando via persino l’estinzione e la susseguente elezione a divinità cristica, perché la pietra filosofale che si doveva trovare è già annerita dalle preghiere inascoltate, e leccandola “fiorisce sulle labbra l’Herpes”. Pertanto “Io sputo contro il dio che in ginocchio gorgoglia con le ostie come un maiale malato.” E ci si guardi dal chiamarla blasfemia! Perché è soltanto il grido di un essere scaturito dall’inferno, che ha trovato un inferno sulla Terra, e che lo lascerà per un altro e ancor più sublime Inferno di Celluloide. L’estrema bellezza è sempre oscena, ma contemporaneamente aldilà di ogni giudizio, perché l’essere in questione è nato già corrotto, non è un uomo, ma “un bacio degli elementi”, imprevedibile, inarrestabile, che ha scorto Cristo di sfuggita e si è dato alla macchia, intuendone la sostanziale ipocrisia.
In fondo, quello della febbricitante malattia di Kinski è il mondo da cui proveniamo tutti, e che solo un barlume di fasulla morale ci impedisce di descrivere. Muovendosi abbacinato della desolata disperazione di questo universo, l’autore non ha avuto invece alcun ripensamento e ci ha mostrato la vescica purulenta del mondo scoppiare nell’infezione totale della mancanza di speranza, di una realtà che rotola sul cadavere putrefatto di se stessa, incessantemente, defunta prima ancora di nascere.
Questo aborto del cosmo è descritto nelle pagine di “Febbre”, uniche e ineguagliabili. Come il suo autore. “Senza pari nella sua generazione.”
Fabio Todeschini